Kinesiofobia state of mind

Kinesiofobia State of Mind.

Una volta sì. Fobia. Paura del movimento. Paura cronica del movimento. L’ho sempre avuta. Da che ne abbia memoria.

La kinesiofobia è definita come timore eccessivo, irrazionale e debilitante del movimento fisico e dell’attività, derivante da una sensazione di vulnerabilità dovuta ad una lesione dolorosa o a ripetuti infortuni. Ecco. Ho sempre avuto difficoltà motorie (le suore all’asilo non hanno aiutato), che non hanno fatto altro che peggiorare a scuola, dove delle mie fatiche non importava niente a nessuno, anzi: mi ritrovavo travolta da un flusso di ragazzini, le cui competenze motorie erano sicuramente superiori alle mie e a me veniva chiesto di adeguarmi al loro standard, senza averne i mezzi, con risultati catastrofici. Quindi, per me, muovermi e farmi male, era la norma. Io ho cominciato ad avere il terrore delle lezioni di educazione fisica, durante le quali, alle medie, ho rimediato il colpo di frusta che mi ha causato la lesione che mi provoca la nevralgia occipitale, ho rotto un paio di tendini flessori delle dita delle mani e rimediato altre varie figure di 💩 che non sto a raccontare (senza contare la caduta apocalittica che ha aperto la strada al dolore persistente, ma quella è stata accidentale).

Credo che ci sia poco da stupirsi che sia diventata kinesiofobica. In qualche modo, il mio corpo è sempre stato un traditore. È stato normale, per me, scegliere il cervello. Era sicuramente più affidabile.

Ovviamente, negli anni, la mia kinesiofobia, si è nutrita e fatta forte dei “non ti muovere”, che i vari professionisti della salute mi hanno offerto. Ero felice che mi venisse detto di non muovermi. Il fatto è che la kinesiofobia è correlata al dolore cronico. Comprendere questo rapporto può essere difficile, ma è importante per affrontare le “disfunzioni” che possono “causare il ciclo del dolore”. Per riassumere, la convinzione che qualcosa non vada nel nostro corpo, e la convinzione che evitare l’esercizio impedirà un aumento del dolore, conducono ad un circolo vizioso che comporta un evitamento del movimento o di qualsiasi attività che potrebbe (potrebbe, in teoria, secondo noi) causare dolore o infortuni. Nel corso del tempo, l’inattività che deriva da questa paura, porta a conseguenze psicofisiche quali atrofia muscolare, perdita di mobilità e una risposta alterata a stimoli dolorosi e cambiamenti comportamentali, che possono contribuire a perpetuare il dolore. Insomma, un casino: ci intrappoliamo (inconsapevolmente) ancora meglio nel problema.

Immersa nella mia kinesiofobia, quando Luca si è presentato dicendo che mi dovevo muovere per gestire il dolore, ho pensato che fosse pazzo (sorry). Perché avrebbe fatto male, perché non ero capace. E non è andata così. Quello che è successo, è che nel mio percorso ho avuto vicino persone che mi hanno accolto. Hanno ascoltato le mie paure e, un kg dopo l’altro, mi hanno aiutato a farcela.

Quindi, quando mi specchio, con un bilanciere sulle spalle, e vedo tutta l’intelligenza del mio corpo, che aveva solo bisogno dei suoi tempi, di non essere travolto dal flusso “degli altri”, non mi sento semplicemente liberata dal dolore, ma anche dalla paura e dall’insicurezza. E io credo fermamente che il briciolo di autostima che sono riuscita a recuperare, sia passato e passi attraverso lo strumento che mi sentivo meno congeniale: il mio corpo.

Il mio corpo, che guardo sempre più stupita.

 

Fonti:
Butler DS, Moseley GL. Explain pain. Adelaide: Noigroup Publications; 2015
Crombez G, Vlaeyen JW, Heuts PH, Lysens R. Pain-related fear is more disabling than pain itself: evidence on the role of pain-related fear in chronic back pain disability. Pain 1999;80(1):329–339. doi:10.1016/s0304-3959(98)00229-2.
Lethem J, Slade P, Troup J, Bentley G. Outline of a fear-avoidance model of exaggerated pain perception—I. Behaviour Research and Therapy 1983;21(4):401–408. doi:10.1016/0005-7967(83)90009-8.
Neblett R, Hartzell M, Mayer T, Bradford E, Gatchel R. Establishing clinically meaningful severity levels for the Tampa Scale for Kinesiophobia (TSK-13). Eur J Pain European Journal of Pain 2015;20(5):1–10. doi:10.1002/ejp.795.

Alla ricerca del sintomo perduto

“Il farmaco toglie il sintomo, ma non aiuta ad affrontare quello che ha portato a stare male. La psicoterapia toglie il sintomo e permette di affrontare le difficoltà che hanno portato a sviluppare il sintomo”.

Mh.

Calmi. Non perdiamo la testa. Come assunto di base può anche funzionare.

La psicoterapia ha portato un’istanza di rinnovamento rispetto ad una visione tendenzialmente meccanicistica, in qualche modo funzionalistica dell’essere umano. Non possiamo però considerarla la panacea per tutti i mali o, almeno, non nel caso del dolore persistente. Se la psicoterapia ha cambiato la visione dell’essere umano, che quindi non è una macchina, sembra essersi inceppata su una delle sue premesse fondamentali. Il dolore è considerato come espressione della dissociazione da un trauma emotivo: sembra essere un assioma. Ma lo è realmente? Il dolore persistente lo sfida. Lo sfida scientificamente.

Per quanto esistano dei fattori psicosociali predittivi (traumi emotivi, condizioni socio-familiari avverse…), questi non sono una condizione sufficiente per lo sviluppo di dolore persistente (non tutti quelli che hanno dolore persistente, hanno vissuto tali condizioni): il dolore ha necessariamente una base biologica dimostrabile e verificabile (incluso il dolore nociplastico, per cui sono apprezzabili cambiamenti corticali strutturali e funzionali –il famoso dolore “che non si vede da nessuna parte”).

Se il dolore è un problema su base organica, non è umano pensare di curarlo con estenuanti sedute di psicoterapia alla ricerca del trauma perduto, che magari non c’è (e spesso non c’è). Piuttosto sarebbe utile rinunciare alla premessa dolore=dissociazione e smettere di considerare le persone con dolore persistente come persone malate: hanno una malattia, non sono la loro malattia, ammesso che il dolore persistente sia una malattia, piuttosto che una condizione (psico)fisica.

Scientificamente, le neuroscienze mettono in discussione le premesse della psicoterapia. La persona con dolore persistente non è una persona malata, è una persona che vive una condizione (psico)fisica, ma non è da identificare con il suo problema, con la sua difficoltà, con la sua condizione dolorosa, è una persona che ha bisogno di essere curata, ma non in termini medici: ha bisogno di essere accolta, tout court. La cura “medicalmente intesa” ha come obiettivo quello di portare alla condizione precedente a quella della malattia: spesso non è possibile. Compito della psicoterapia, accolti tutti questi assunti, dovrebbe essere aprirsi genuinamente a queste nuove istanze.

La Scienza del Dolore, è una scienza nuova, che guarda con occhi nuovi un problema antico. Non è possibile pensare di trovare soluzioni innovative rimanendo ancorati a vecchi pregiudizi. La psicoterapia, che agli albori del Novecento si è fatta portatrice di una rivoluzione, ha la possibilità di rinnovarsi giocando un ruolo nuovo e importantissimo, dando alle persone con dolore persistente sguardi diversi e strumenti alternativi per rapportarsi con il proprio vissuto in modo costruttivo ed efficace, scollandosi dalla vecchia visione di cui abbiamo parlato che, in questo caso, dimostra la sua inefficacia.

Nel caso del dolore persistente, l’intervento sul sintomo non è utile, perché si agisce con l’idea che sia la manifestazione di qualcosa, del famoso “trauma represso”, mentre il dolore non è il sintomo, ma la manifestazione: se si entra in quest’ottica si può cercare di capire come influisca sulla vita di chi ci convive costantemente e quindi diventa possibile lavorare a diversi livelli sul dolore e sulle sue manifestazioni,  scardinando l’idea che ci sia qualcosa da curare, per cercare piuttosto di capire come sia possibile aumentare l’autoefficacia e vivere bene con il dolore.

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(Abbiamo scelto di parlare di psicoterapia, non di psicologia, perché questa interviene direttamente sui costrutti epistemologici della personalità e sul funzionamento delle persone stesse).

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Articolo scritto con Andrea Ghirelli, amico fidato, educatore, mediatore familiare, counselor sistemico relazionale.

 

Fonti:

Chronic pain epidemiology – where do lifestyle factors fit in? by Oliver van Hecke, corresponding author Nicola Torrance, and Blair H Smith Br J Pain. 2013 Nov; 7(4): 209–217. PMC4590163

A Broad Consideration of Risk Factors in Pediatric Chronic Pain: Where to Go from Here? by Hannah N. McKillop, and Gerard A. Banez2 Children (Basel). 2016 Dec; 3(4): 38. Published online 2016 Nov 30. doi: 10.3390/children3040038 PMC5184813

Preventing Chronic Pain following Acute Pain: Risk Factors, Preventive Strategies, and their Efficacy by Kai McGreevy, M.D., Michael M. Bottros, M.D., and Srinivasa N. Raja, M.D. Eur J Pain Suppl. 2011 Nov 11; 5(2): 365–372. PMC3217302

New concepts of pain, by Anne-PriscilleTrouvina SergePerrota on Best Practice & Research Clinical Rheumatology

Bardolino Chiaretto Bentegodi, 2018

 

Basta una parola (sbagliata)

Posso sembrare una persona fredda, solitaria, indifferente e priva di sentimenti. Non è così: mi sono dovuta costruire una corazza. Perché sopravvivere al dolore fisico è stato complicato. Così complicato, che a volte non so più dove sono andata a finire.

È stato ancora più complicato sopravvivere al senso di inadeguatezza che mi causava non riuscire a guarire, nonostante tutto il mio impegno.

Fino a ventidue anni circa, non credo di essere stata pienamente consapevole del dolore. C’era, ma non era spaventoso. Ha cominciato ad esserlo dall’estate del 2003, per la concomitanza di una serie di fattori, che adesso riesco ad individuare bene (psicologici, sociali, ambientali, biologici), ma che in quel momento mi sfuggivano completamente.

In quell’estate il dolore, ed una serie di sintomi assurdi, hanno cominciato a mangiarsi tutto. Non sto parlando più solo del dolore muscoloscheletrico e dell’allodinia, ma di rigidità, disturbi del sonno, mal di testa ostinati, acufeni, colon irritabile, alterazioni nella percezione della temperatura corporea, tachicardia, sintomi allergici, vertigini, testa confusa. Mi sentivo una mosca impazzita in un bicchiere capovolto. A quel punto io, già cliente fedele di innumerevoli fisioterapisti, ho cominciato i miei tour dai medici, che immancabilmente si risolvevano in gite dagli strizzacervelli o in cure fallimentari e danni iatrogeni conseguenti.

Il mio dolore e i miei sintomi “correlati” non se ne andavano come previsto, non come mi aspettavo io e nemmeno come si aspettavano i medici, i fisioterapisti, gli osteopati, i chiropratici e gli strizzacervelli.

Così, ad un certo punto, il problema sono diventata io. Il problema non erano il dolore, o i miei sintomi, o la situazione tremenda in cui mi trovavo, o i trattamenti che non funzionavano. Non era chi mi trattava che aveva conoscenze insufficienti sui meccanismi del dolore persistente. No. Il problema ero io. E mi veniva detto in faccia. Come se fossi ostile alla guarigione.

Come esseri umani, in genere, ci piace molto pensare di essere preparati ed empatici, ma mi chiedo se pensiamo mai realmente al potere delle parole. Perché le parole costruiscono mondi. E quelle che mi sono sentita dire dai professionisti della salute, hanno improntato il mio mondo e la mia personalità.

Ripensandoci, non c’è da meravigliarsi che mi vergognassi così tanto di avere dolore persistente. Non c’è da stupirsi che mi sentissi in colpa. Perché è stato fatto davvero tutto il possibile per farmi sentire inadeguata, non tanto incapace di affrontare la situazione, quanto direttamente responsabile del suo mantenimento. Non dico sia stato fatto deliberatamente, con l’intento di nuocere, ma il risultato è questo.

Non ha senso negare la complessità del dolore, scaricando le colpe sul paziente, eppure è quello che è successo a me. Noi siamo persone con dolore persistente, non cattive persone, bugiarde, fragili, incapaci, non collaborative, irrecuperabili, condannate al dolore “per colpa nostra”; viviamo situazioni tremende, siamo costrette ad adeguarci ad uno “standard” con cui, francamente, nessun essere umano vorrebbe confrontarsi: lo so che lo dico spesso, che sono ripetitiva, è solo che voglio vi entri bene in testa. Vivere con il dolore cronico, non è normale.

Considerato quanto sia importante il linguaggio per chi soffre di dolore, a qualsiasi professionista della salute dovrebbe essere vietato usare termini inappropriati, quelli che finiscono con il farci sentire deboli, colpevoli (finirai su una sedia a rotelle, impara solo a conviverci, è il peggiore che abbia mai visto, ti resta solo Lourdes) o inefficaci (il dolore non passa perché non vuoi che passi, stai così per colpa tua), pazzi (la stai facendo troppo grossa, dagli esami non si vede niente). La raccolta può tranquillamente essere ampliata. Queste parole ci allontanano dalla guarigione, innanzitutto. In secondo luogo, sono disumane. E, nella nostra testa di persone con dolore persistente, consolidano un mondo fatto di inettitudine e sensi di colpa.

Un compito fondamentale nella psicologia del dolore è quello di aiutare le persone a imparare a riformulare il loro monologo interiore in modo che diventi più realistico e di supporto. Essere in grado di cogliere e riconoscere impulsi inutili o non realistici non è facile, ma questa abilità è alla base di molti adattamenti riusciti al dolore persistente. Questa intuizione costituisce la base della terapia cognitivo comportamentale (una forma di psicoterapia che mira a cambiare i comportamenti di pensiero inutili), che ha un ruolo importante nell’aiutare le persone a vivere con dolore persistente. Vivere con il dolore persistente, vivere bene con il dolore, è un obiettivo pienamente realizzabile, lo so per esperienza personale. Aggiungo che è pienamente realizzabile in un contesto in cui il paziente non sia regolarmente gambizzato dai professionisti della salute, cosa che capita ancora spesso.

Se il paziente deve essere guidato verso una maggiore consapevolezza, lo stesso deve accadere per chi si prende cura di lui: i professionisti della salute dovrebbero motivare le persone con dolore persistente, offrendo un linguaggio che deve essere scelto con cura al fine di prendersi più cura del paziente, non di remargli contro.

Quando un trattamento non funziona, è umano trovare qualcuno a cui dare la colpa. Eviterei di accusare il paziente, l’ho già detto. Eviterei anche di incolpare il clinico (anche se in questo caso, ammetto, mi ci vuole uno sforzo di misericordia, sono di parte).  Del resto, accusandoci a vicenda, non abbiamo molto da guadagnare. Sicuramente un paziente motivato è  un passo più vicino al successo, e un professionista della salute consapevole dei propri limiti saprà come motivare una persona, rispettarla, far passare le giuste informazioni, quando fermarsi e passare il testimone, o scegliere di informarsi.

Non credo che i professionisti della salute siano perfidi di natura. Credo che una volta assunto il fatto che “il vecchio modo di procedere” a cui siamo abituati sia deleterio, così come si cercano nuovi modi per i pazienti per aiutarli a riformulare i propri pensieri allo scopo di vivere bene con il dolore, debba essere dato maggior risalto all’importanza di “comunicare bene” il dolore da parte dei sanitari.

Se i pazienti desiderano essere aiutati, presumo che i sanitari vogliano aiutare, quindi se interpretassimo la relazione paziente/professionista della salute come dialettica e non come una partita fra squadre avversarie, potremmo ricavare del buono per entrambe le categorie.

C’è speranza per tutti.

Quando il dolore cronico uccide

Una delle cose “interessanti” che mi sono capitate da quando ho cominciato a lasciarmi alle spalle il dolore cronico, è stata che le persone hanno iniziato a riconoscere la mia malattia. Persone che l’avevano negata per anni, quando mi hanno vista andare in palestra due volte alla settimana, correre, curarmi con medicinali “mai sentiti” e diventare letteralmente un’altra, hanno cominciato a pensare (più che altro a capire) che fossi “malata per davvero”.

A quel punto, anche i più insospettabili, non solo hanno iniziato a chiedermi informazioni per l’amico che soffre o (addirittura) per sé, ma anche a raccontarmi di quei loro conoscenti che, per anni, hanno cercato aiuto perché soffrivano di dolori terribili e che, alla fine, non riuscendo a trovarlo da nessuna parte, hanno deciso di averne avuto abbastanza.

Avevo sempre pensato che il dolore cronico potesse rovinare a tal punto una vita da spingere al suicidio. Io stessa ci avevo pensato, per una trentina di secondi, nell’estate del 2003, guardando il selciato dal secondo piano di casa. Ora avevo qualche dato empirico in più, che non riguardava solo me.

Sicuramente non è piacevole parlare di suicidio. Non è un argomento con cui fare conversazione. Ma, generalmente, i problemi non si risolvono ignorandoli.

Noi, di dolore cronico, ci ammazziamo. Io non ho voglia di far finta di niente.

In effetti, a meno che non esistano condizioni patologiche specifiche sottese, di dolore cronico “in sè e per sè” non si muore. E’ possibile che si sviluppi una predisposizione alle malattie cardiovascolari, probabilmente causata dall’ansia e dallo stress prolungati a cui è esposto chi soffre di dolore persistente, ma questa è una condizione che si può gestire con le opportune strategie.

Altri fattori correlati all’aumentato rischio cardiovascolare, al cancro e alle malattie polmonari, spesso riguardanti anche chi soffre di dolore cronico, sono un BMI troppo alto, inattività, cattiva alimentazione, ma sono tutti fattori legati allo stile di vita, che subisce gli effetti negativi di una serie di pregiudizi sul dolore cronico (in particolare la necessità di ridurre il movimento, che è deleteria), non al dolore cronico in sè: migliorando lo stile di vita, si ritorna in range “normali”.

Insomma, non credo di dover spiegare qui cosa voglia dire vivere con dolore persistente ma, riassumendo, vuol dire portare un carico di dolore che, a lungo termine, fisicamente e psicologicamente è semplicemente devastante. Prima si ruba il corpo, poi la psiche, a volte tutta. Se la mangia. Si prende la vita. Punto. E si può arrivare a contemplare il suicidio.

Il tasso di suicidio è più altro fra le persone con dolore persistente.  Generalmente i fattori di rischio, in questa popolazione, possono essere concettualizzati in termini di due categorie. La prima comprende fattori che non sono limitati a pazienti con dolore, ma sono associati a tendenze suicide in generale. La seconda categoria raggruppa fattori di rischio specifici per le persone con dolore. Alcuni di questi sono difficili o impossibile da modificare, come la durata del dolore, o le sedi del corpo interessate. Altri, come l’intensità del dolore, la tendenza al catastrofismo, le interferenze funzionali, la scarsa autoefficacia, possono essere migliorati con interventi appropriati (e questa potremmo considerarla una buona notizia).

Sebbene raramente discusso, il suicidio nelle persone con dolore cronico si verifica spesso. Non ci sono dati concreti su quante persone con dolore cronico muoiano per suicidio ogni anno. Ma ci sono alcune supposizioni. Si ritiene che su circa 40.000 persone che riescono nei loro tentativi di suicidio ogni anno negli Stati Uniti, almeno dal 10 al 15 % siano persone che soffrono di dolore cronico. La verità, ovviamente, è diabolicamente difficile da capire con certezza (non mi voglio dilungare in dissertazioni sull’argomento, ma non abbiamo i dati delle persone che non lasciano lettere che spieghino le loro motivazioni e spesso non è possibile inquadrare le overdose da oppiacei come atti intenzionali, eccetera).    

Poiché gli individui con dolore cronico hanno almeno il doppio di probabilità di riportare comportamenti suicidi o di suicidarsi, è della massima importanza individuare quali fattori di rischio contribuiscono maggiormente all’aumento del rischio di suicidio. Esistono solide  evidenze che il dolore cronico stesso, indipendentemente dal tipo, sia un importante fattore di rischio indipendente per il suicidio. L’unico fattore sociodemografico trovato associato a suicidio in individui con dolore cronico è relativo alla disoccupazione e alla disabilità. Sintomi depressivi, problemi di rabbia, abitudini dannose (ad esempio fumo, abuso di alcool, droghe illecite), avversità nell’infanzia o nell’età adulta e storia familiare di depressione o tendenze suicide sono stati tutti identificati come fattori di rischio generali.

Per quanto riguarda i fattori legati al dolore, i problemi del sonno, il tono dell’umore basso, le condizioni concomitanti di dolore cronico e gli episodi più frequenti di dolore intermittente, sono stati tutti considerati fattori predittivi di suicidio. Inaspettatamente, le caratteristiche del dolore (per esempio il tipo, la durata, l’intensità, la gravità) e lo stato fisico non sembrano correlate al rischio di suicidio. Risultano maggiormente significativi, associati a esiti suicidi, i fattori psicosociali (ad esempio il senso di sconfitta mentale, la tendenza al catastrofismo, la disperazione).

Un gran numero di questi fattori è suscettibile di cambiamento attraverso un intervento mirato, sottolineando l’importanza di valutare in modo completo i pazienti con dolore cronico a rischio di suicidio, incorporando anche una componente di prevenzione del suicidio nei programmi di gestione del dolore cronico.

La triste situazione dei pazienti con dolore cronico, e il loro potenziale legame con il suicidio, difficilmente migliorerà fino a quando  l’epidemia del dolore cronico non verrà realmente presa sul serio, agendo strategie davvero efficaci, che non si basino sul trattamento preistorico del problema.

Le persone che vivono con dolore cronico sono la ragione per cui è essenziale un aumento dei finanziamenti per le cure per gestire il dolore cronico, a tutti i livelli, a partire dalla formazione del personale sanitario (e non solo). Il peso del dolore spesso supera la volontà umana di vivere, troppo spesso non perché manchi la ricerca, ma per una drammatica carenza di competenze da parte chi dovrebbe farsi carico della salute dei pazienti, che vengono abbandonati a se stessi, a vite non vite, in cui il dolore porta ad una disgregazione del vissuto, delle relazioni, della personalità, con ripercussioni gravissime, che non dovrebbero più essere ignorate. 

Fonti:

When pain kills – chronic pain and chronic diseases by Chris Williams on Body in Mind leggetelo qui

The Painful Truth, by Lynn Webster

A Nation in Pain. Chronic Pain and the Risk of Suicide by Judy Foreman on Psychology Today

Chronic pain and suicide risk: A comprehensive review, by Melanie Racine on Neuro-Psychopharmacology and Biological Psychiatry PubMed#28847525

Testing the Interpersonal Theory of Suicide in Chronic Pain by Wilson KG, Heenan A, Kowal J, Henderson PR, McWilliams LA, Castillo D on Clinical Journal of Pain PubMed #27768608

Remission From Suicidal Ideation Among Those in Chronic Pain: What Factors Are Associated With Resilience? by Fuller-Thomson E, Kotchapaw LD on The Journal of Pain PubMed#30979638

 

 

 

Il dolore cronico non esiste

Sentiamo continuamente parlare di cancro, diabete e malattie cardiache. Credo sia un bene. Non che ami sentir parlare di malattie, ovviamente, ma se di una cosa si parla, significa che non la si sta spazzando sotto al tappeto facendo finta che non esista. Parlarne probabilmente significa anche più prevenzione, più ricerca.

Ovviamente la percezione che se ne ricava è che tumore, diabete e malattie cardiache siano i grandi mali del nostro tempo. E se vi dicessi che le cose non stanno esattamente così? Si stima che circa 1,5 miliardi di persone al mondo soffrano di dolore cronico. E’ un numero enorme, superiore a quello dei malati di tumore, diabete e malattie cardiache messi insieme. Questo dato ovviamente è una proiezione fatta alla luce di alcuni sondaggi condotti in Europa, negli USA e in Australia e Asia. Riguarda almeno un adulto su cinque, tralasciando i bambini e gli adolescenti. Studi condotti a livello europeo confermano che, il dolore persistente, ha un impatto significativo sulla vita quotidiana, sulla socialità e sulla qualità di vita di chi ne è colpito.

Tra la metà e i 2/3 di chi vive con dolore persistente, vede diminuita la propria possibilità di riposare normalmente, muoversi, partecipare ad attività sociali, guidare un’auto, avere una vita sessuale normale. Senza contare che una persona su quattro dice che i rapporti con gli amici o i familiari si sono diradati o interrotti. Uno su tre è meno capace, o del tutto incapace, di mantenere uno stile di vita indipendente. Uno su cinque è depresso a causa del dolore. Il 17% soffre così tanto, a volte, che vorrebbe morire. Alcuni si ammazzano davvero, ma lo studio non dice quanti. Il 39% degli intervistati ha la sensazione che il proprio dolore non sia gestito adeguatamente e che i medici non considerino il dolore un problema. Il dolore cronico, non volendo considerare l’aspetto psicosociale, perché per ora assumiamo che siamo senza cuore e della sofferenza degli altri non ce ne importi un tubo, ha un impatto economico tremendo.

Ragioniamo come se fossimo Ebeneezer Scrooge: il dolore lombare, da solo, è uno dei fardelli economici più impattanti nei paesi sviluppati. Infatti implica costi per le cure, per il welfare, ma anche per l’assenza dal lavoro e il calo prestazionale di chi si deve sobbarcare le mansioni dei colleghi assenti, perdita di guadagno per le aziende e per il paziente, diminuzione del guadagno e, quindi, delle possibilità di spesa per chi eventualmente si trova nella posizione di dover sostenere il congiunto costretto all’inattività a causa del dolore cronico. Le ricerche mostrano anche come chi soffre di dolore persistente sia più a rischio di perdere il lavoro e spesso non possa lavorare fuori casa. Insomma: stiamo parlando di un problema apocalittico, con risvolti sociali ed economici tremendi.

Quindi credo che la domanda lecita, senza usare parolacce, sia: “Perché il carico patologico globale del dolore cronico è sottovalutato?” Ho cercato un po’ di risposte. Le risposte che ci sono, quando si trovano, fanno rabbrividire. Mi è capitato, a tal proposito, per le mani un documento semplice, ma piuttosto interessante. Un “Fact Sheet”, dal titolo “Unrelieved Pain is a Major Global Healthcare Problem”. Il dolore persistente non è diagnosticato e non è curato perché lo si considera “psicosomatico”, frutto della depressione (sono già diventata una pentola a pressione) che spesso affligge chi soffre di dolore cronico, quindi sprovvisto di una reale causa organica. Non è diagnosticato perché i trattamenti sono considerati futili. Non è diagnosticato perché il dolore è inevitabile. Non è diagnosticato perché i pazienti sono anziani e hanno poco da vivere, o sono troppo piccoli e qualcuno crede ancora che i bambini non avvertano dolore, o che le ustioni di terzo grado siano senza dolore. Principalmente, c’è ancora un’ignoranza inaccettabile rispetto all’argomento. E non lo dico io. Lo dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Compresi i motivi per i quali il dolore cronico è sottovalutato, che sono fondamentalmente determinati da una serie di pregiudizi da capre (perdonatemi, sono stata gentile fin qui), quali sono gli ostacoli alla valutazione e al trattamento del dolore cronico? Io ho un sospetto, ma vediamo un po’ cosa ci dice il “Fact Sheet” che ho sottomano.

La prima colpevole è, signori e signore, l’ignoranza di cui sopra. Mancanza di conoscenza o di consapevolezza. Questo problema non riguarda solo il povero paziente o la sua famiglia, che magari fanno i fioristi e avrebbero tutto il diritto di non sapere un accidenti di dolore persistente, ma anche i professionisti della salute, quindi quelli che dovrebbero curarlo, il povero paziente e che, si suppone, aggiungo, dovrebbero quantomeno saperne di più di lui. Oltretutto, consideriamo che in Europa, un paziente su quattro con dolore moderato o severo, riporta che il medico curante non ha mai fatto domande circa il dolore, non ha pensato che avesse problemi di dolore e, comunque, anche se ha chiesto informazioni, ci si è soffermato per poco e non ha saputo fornire una soluzione. Che bella notizia. Anche se la disponibilità di analgesici oppiacei per dare sollievo dal dolore oncologico è aumentata persino nei Paesi in via di sviluppo, grazie agli sforzi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il dolore oncologico non è l’unico dolore persistente severo che esista e gli oppiacei non sono gli unici farmaci necessari per trattarlo, per cui la maggior parte delle persone con dolore persistente, resta senza farmaci adeguati in tutto il mondo.

E cosa si fa per cambiare questo stato di cose? Ci si educa. Si studia, si impara. Come? Cambiando i programmi delle Università, per esempio. Leggendo le riviste scientifiche. Andando ai corsi di formazione. Smettendo di considerarsi intellettualmente e moralmente superiori ai propri pazienti, perché una laurea in una professione medico sanitaria non nobilita l’uomo.

E’ un bel problema, direi. E non mi pare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore abbiano avuto un grande successo.

Il Fact Sheet che sto leggendo è del 2004. E’ stato realizzato in occasione del First Global Day Against Pain dalla Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore – IASP e dalla Federazione Europea dei Capitoli IASP – EFIC, con la co-sponsorizzazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Notizia vecchia? In termini di tempo di sicuro. Se ci basiamo sui risultati, francamente i contenuti mi sembrano quantomai validi.

Qualcosa si muove, è vero. Ma c’è ancora uno scollamento tremendo fra pratica clinica e ricerca scientifica. E non è ammissibile. Dobbiamo continuare a parlare di dolore. Non c’è nulla di ignobile o lagnoso nel farlo. Sarebbe come non parlare di cancro, perché non è dignitoso o ci fa venire la tristezza o non è “virile”. A me sembrerebbe semplicemente incredibilmente stupido.

 

Fonti:

www.science.org.au

www.reasearchamerica.org

Unrelieved Pain is a Major Global Healthcare Problem, Fact Sheet, IASP – EFIC

 

 

 

 

L’inizio della (mia) storia

Premetto, a mia discolpa, che io amo follemente mia madre. È una donna brillante, un crossing fra Alice nel Paese delle Meraviglie e Piperita Patty. Mia madre è un’artista. Il che significa che ha un gusto raffinatissimo quando si tratta di composizioni di fiori e pittura ad acquarello o di arredamento, ma tutto ciò che non è arte figurativa esula dal suo interesse: il guardaroba, ad esempio. Finché si tratta del suo, non ci sono particolari problemi, per quanto mi riguarda. Ma quando si tratta del mio beh, è stato difficile avere dodici anni e la mise di una militante della controcultura. Quando le mie compagne si nascondevano in bomber della Energie, jeans a zampa e Kikers, io ero condannata a vestiti da intellettuale in erba. Mi prendevano in giro per la mia pelle bianca come il latte, mi chiamavano “la smorta”. No, io non mi abbronzo. Mai. Non è un vezzo. Sono fatta così. Si chiama fototipo 1. Se a questo aggiungiamo il guardaroba, si capisce come la mia voglia di sparire aumentasse, ma diventasse sempre più un desiderio irrealizzabile. Avevo in me il gene dell’essere controcorrente, ma a dodici anni non sapevo cosa farci. Era sabato. Credo fosse primavera. All’uscita da scuola hanno cominciato a prendermi in giro per il colore della pelle. Il maglione oversize non mi aiutava ad avere coraggio. Avevo dei fuseaux neri. Ballerine nere. Non so cosa sia successo di preciso. So che il capo-bullo mi si è parato davanti sfottendomi, poi sono caduta. Lo zaino, pieno di libri, con il suo peso esorbitante, mi ha trascinato all’indietro, e sono rimasta lì, così, per terra, in mezzo alla strada, per un tempo che non so definire, presumo svenuta. Non so da cosa derivi precisamente la frase “vedere le stelle”, che si usa per descrivere l’essere colpiti da un dolore forte e improvviso: fatto sta che io ho visto le stelle anzi, le stelline (eccole qui!). E non si è trattato di uno sfarfallio luminoso davanti agli occhi: ci ho fatto proprio una passeggiata in mezzo, in un tunnel blu notte. E da quel giorno è cominciata la mia lunghissima e complicatissima love story con il dolore cronico. Perché la chiamo love story? Perché il nostro rapporto è stato lungo una vita, la mia, ed è stato difficile, fatto di lunghissimi momenti di reciproca incomprensione, poi in qualche modo è sbocciato, quando io ho trovato il modo per parlare il suo linguaggio: può sembrare delirante, ma non lo è troppo. Lo capirete leggendo. In fondo, non posso dire di odiare la mia vita passata: è stata la mia vita.

Quando mi sono risvegliata, dopo la mia passeggiata astrale (è il caso di dirlo), non c’era più nessuno intorno a me: ero sola, sdraiata in mezzo alla strada e stavo soffocando. Ricordo di essermi sollevata da terra sfilando le braccia dalle cinghie dello zaino, abbandonandolo lì, e di aver camminato rantolando fin tra le braccia di una perfetta sconosciuta che, in qualche modo, massaggiandomi la schiena e abbracciandomi, è riuscita a riportarmi tra i vivi. Non mi sentivo vittima di un atto di bullismo, nel ’92 non ne avevo neppure sentito parlare, ma solo una perfetta idiota: una semplice, ulteriore, vivente conferma della mia goffaggine.

Ecco, a me il dolore cronico tocca da quella epica caduta, della quale, essenzialmente, non è importato un tubo a nessuno. Ero caduta. Tutti cadono. Giocavo con le Barbie e avevo mal di schiena atroci, ma mi dicevano fossero i dolori della crescita. Non mi risultava che nessuno dei miei compagni di classe soffrisse così, per di più in una zona colpita da una botta pazzesca, ma prendevo la spiegazione per buona. Insomma, a me risultava che fosse mia nonna ad avere mal di schiena e io non avevo certo l’età di mia nonna, ma mi facevo andare bene l’interpretazione.