L’elefante nella stanza. Il dolore persistente e i problemi neurocognitivi.

Muovermi, mi ha sempre fatto paura.

Non ho mai avuto il pieno controllo del mio corpo, per qualche motivo che non so esattamente, è sempre stato d’inciampo, arriva dopo la mente, si riempie di ansia, per la paura di cadere. La mia diversità in questo senso mi è sempre pesata. Una diversità dentro, perché fuori di diverso non c’era niente. Non c’è niente.

Eppure, c’è tantissimo di diverso.

Chissà voi da fuori cosa pensate di me. Cosa vedete. Chi vedete.

Da dentro, spesso si sente tanta fatica.  Se ad una persona “standard” una certa cosa richiede un tot di fatica, in genere io ne devo fare il doppio, con il corpo e con la testa.

L’incapacità di controllare il corpo, che si è intrecciata in modo drammatico con il dolore persistente, mi ha inevitabilmente portato a privilegiare il cervello. Leggere, studiare, imparare, sapere. Ecco, la mia definizione come persona, per anni, è venuta da lì.

Di Review che raccontano me, la mia esperienza, l’esperienza dei sintomi di una persona con dolore persistente, ne ho lette tante.

Una revisione sistematica (Systematic Review), è uno strumento della ricerca scientifica il cui obiettivo è quello di riassumere dati su un certo argomento, con attenzione alle fonti, che devono essere altamente referenziate, per individuare tutte le prove relative a una specifica questione scientifica.

Ritrovarsi in Review sul dolore persistente, sulla Sensibilizzazione Centrale, fa sempre un certo effetto.

Ritrovarsi a riflettere sui problemi neurocognitivi che il dolore persistente porta con sé dopo aver letto una revisione però, per me è stato straziante.

Io ho sempre saputo (e poi ho letto) che il dolore persistente causa problemi cognitivi. Ritrovarli per filo e per segno scritti nero su bianco, ha un che di devastante: se del dolore persistente non importa a nessuno, dei problemi cognitivi che il dolore porta con sé, importa ancora meno, eppure ci sono, sono lì, elefanti in una stanza, che diventano, per chi ti giudica o ti fa una diagnosi, se ti va bene stress e stanchezza, se ti va male un atteggiamento da scansafatiche.

Questo non è un cammino fatto di punti e basta. E’ in continua evoluzione. Perché io sono in evoluzione. Il dolore persistente, per sua essenza multidimensionale, mi impone di raccontarvi i fatti miei.

Il dolore persistente non è una cosa che tu sei qui, lui lì e tu nel frattempo puoi continuare a farti la tua vita. Ti sta abbracciato addosso stretto, al punto che non si capisce più chi sei tu e chi è lui.

Bene. Ora che siamo al punto in cui si capisce un po’ di più chi sono io, perché il grosso del dolore è stato tolto e, tutto sommato, si intuisce che sotto non c’è una lagna patologica, che langue sul divano in attesa che si compia il suo inesorabile destino (ossia quello che evidentemente il mondo credeva che fossi), posso provare ad affrontare questo argomento un po’ complicato, senza sentirmi una perfetta idiota.

Dal 2003, anno in cui i miei sintomi sono decisamente peggiorati, ho cominciato a sperimentare anche dei problemi cognitivi. E questo, per una persona che identificava sé stessa con il suo “cervello”, è stato semplicemente tremendo.

Mi spiego meglio: ho iniziato ad avere problemi di memoria a breve termine, la sensazione che “mi mancassero le parole”, di apprendimento, di attenzione, un rallentamento incredibile della velocità di elaborazione delle informazioni. Vivevo con un perenne senso di confusione. I professionisti della salute mi dicevano che ero ansiosa e stressata. Io avevo paura di avere un principio di demenza. Nel frattempo, la mia autostima se ne andava a rotoli, e la mia vita con lei.

Non è facile ritrovarsi incapaci da un momento all’altro. Mettere l’ambizione da parte, per lasciare spazio all’insicurezza, abbandonarsi ad un corpo e ad un cervello (soprattutto) che non ci corrispondono. Significa non riconoscerci più, non sapere cosa aspettarci, non avere progetti.

Perdere il cervello, per me è stato quasi peggio che perdere il corpo. Sono sempre stata un’intellettuale, non un’atleta. Ritrovarmi incapace di pensare è stato traumatico, spaventoso e doloroso. Ma io “ero ansiosa” e insomma, era giusto che me ne stessi nelle retrovie sociali, perché con quel mio modo di essere, tanto volubile, ero utile al mondo come una bomboniera.

Pensavo che l’ansia (cioè quella che mi diagnosticavano come ansia, ma ho poi scoperto essere problemi percettivi causati dall’emicrania) e la sensazione di incompetenza che ne derivava, mi avessero fatto perdere la capacità di essere mentalmente produttiva (non sto considerando il dolore in sè, certo). Invece soffrivo di dolore persistente.

Poi ho letto un po’ di cose. Con diciassette anni di ritardo.

I processi cognitivi di base dell’essere umano sono: percezione, attenzione, memoria, linguaggio e le funzioni esecutive. Tutte queste funzioni sono strettamente legate all’attività decisionale e alla sfera emotiva. Ogni abilità cognitiva può coinvolgere una specifica area del cervello oppure essere il frutto di una rete di connessioni fra diverse aree cerebrali.

Le persone che vivono con dolore cronico hanno comunemente difficoltà cognitive che interessano la memoria a breve termine, l’attenzione, la velocità di elaborazione delle informazioni, la velocità di reazione psicomotoria, le competenze di ordine superiore come la pianificazione e il ragionamento, la flessibilità mentale necessaria per passare facilmente da un compito o da un pensiero ad un altro, la capacità di risolvere problemi.

Anche se i sintomi cognitivi non sono la preoccupazione principale dei pazienti con dolore persistente, possono essere significativamente debilitanti e la ricerca suggerisce che valga la pena di affrontarli.

In primo luogo, le inefficienze cognitive possono avere un impatto sulla risposta dei pazienti al trattamento. La maggior parte delle terapie offerte per il trattamento del dolore cronico richiedono uno sforzo cognitivo da parte dei pazienti, per gestire il loro stato d’animo e per comprendere, ricordare e completare esercizi di fisioterapia.

Sono stati individuati diversi meccanismi che possono influenzare le capacità cognitive delle persone con dolore persistente.

Il primo meccanismo fa riferimento alla “teoria delle risorse limitate”, per cui le capacità, in termini di risorse di elaborazione del cervello, sono preferibilmente assegnate al trattamento dei segnali di dolore, a causa della loro elevata importanza biologica, interrompendo in questo modo altri processi cognitivi.

Il secondo meccanismo è quello della plasticità maladattiva. Nel corso del tempo, i segnali nocicettivi persistenti portano alterazioni strutturali e neurochimiche del sistema nervoso. Nel cervello delle persone con dolore cronico è possibile osservare dei cambiamenti della materia grigia. Questi cambiamenti morfologici e neurochimici che si verificano nel cervello possono essere parzialmente responsabili per i cambiamenti cognitivi che si osservano comunemente.

Inoltre, va considerato il contributo all’esperienza delle difficoltà cognitive di fattori secondari come l’insonnia, la stanchezza, i farmaci e i disturbi dell’umore, anche se sono necessari ulteriori studi controllati per chiarire i contributi di ciascun fattore.

Un promettente sviluppo recente in questo campo di ricerca è quello sulla possibilità di inversione della plasticità maladattiva, con la risoluzione del dolore.

Imaging e studi neurocognitivi hanno dimostrato che la risoluzione del dolore porta alla normalizzazione dello spessore corticale e a una riduzione del deficit cognitivo, tuttavia è certamente necessario capire cosa si possa fare per migliorare le funzioni cognitive, nonostante il dolore.

Certamente educare il paziente circa le cause e il mantenimento dei suoi deficit può essere incredibilmente terapeutico in sé, permette di legittimare le sue preoccupazioni e di aiutarlo capire le ragioni delle sue difficoltà cognitive.

Dopo aver spiegato al paziente le cause probabili delle difficoltà cognitive, il successivo passo logico è quello di trovare insieme dei modi per affrontarle meglio, usando delle strategie di compensazione. Lo scopo delle strategie di compensazione per il deficit cognitivo non è quello di riparare il deficit di per sé. Piuttosto, l’attenzione è sulla riduzione delle disabilità che possono derivare da quelle difficoltà cognitive.

Le strategie di compensazione possono ad esempio contemplare l’uso di segnali di memoria esterni, come un diario o un calendario per gli appuntamenti, un organizzatore di pillole in modo che i farmaci corretti vengano presi ogni giorno, sveglie per tenere traccia del tempo e altri aiuti di memoria elettronica.

Le strategie di compensazione hanno un grande potenziale e se ne possono trovare moltissime in base agli obiettivi specifici del paziente.

Esiste la possibilità di portare avanti interventi che stimolino le funzioni alterate o sottoutilizzate, per costruire o riparare le connessioni neuronali attraverso la neuroplasticità. Ad esempio, se un paziente riscontrasse problemi di memoria a breve termine che gli causano la perdita del filo del discorso, un approccio “restorative” potrebbe essere quello di intraprendere una formazione sulla memoria.

Altra soluzione a disposizione può essere la psicoterapia CBT, che insegna a gestire il dolore, con effetti positivi anche sulle funzioni neurocognitive.

Per ultimo, il movimento, ha effetti neuroprotettivi e migliora la funzione cognitiva.

La soluzione migliore ai problemi di natura cognitiva delle persone con dolore persistente è probabile che coinvolga un combinazione di approcci, adattati individualmente alle esigenze del paziente in base al suo profilo. Ci sono sicuramente molte possibilità di traduzione nella pratica.

Tutto dovrebbe partire dal riconoscimento del dolore persistente come un problema grave, pervasivo, multifattoriale. Le soluzioni ci sono. Purtroppo sembrano orizzonti lontani per molti. Naturalmente, non è un motivo valido per arrendersi.

Ora io che faccio? Ci faccio i conti. Uso strategie di compensazione e cerco di prenderla con ironia, ma non è facile. Non è facile non avere le parole, non ricordare le cose, faticare a passare da un pensiero all’altro. E questo è ancora tremendamente difficile da accettare.

Ma io credo nella neuroplasticità e, in fondo, il mio percorso per cambiare la mia plasticità maladattiva, è appena cominciato. Col corpo, con quel corpo traditore che se ne andava per fatti suoi è andata bene.

Un po’ per volta, anche il cervello cambierà. L’ha già fatto, in fondo. E se perdo le parole, posso sempre riderci su (anche se non è esattamente semplice per Miss Perfezione).

 

Fonti:

Optimizing Cognitive Function in Persons With Chronic Pain Katharine S. Baker, BPsySc (Hons), Nellie Georgiou-Karistianis, PhD, Stephen J. Gibson, PhD, and Melita J. Giummarra, PhD Clinical Journal of Pain, 33(5), 462–472. doi:10.1097/AJP.0000000000000423

 

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