Quando il dolore cronico uccide

Una delle cose “interessanti” che mi sono capitate da quando ho cominciato a lasciarmi alle spalle il dolore cronico, è stata che le persone hanno iniziato a riconoscere la mia malattia. Persone che l’avevano negata per anni, quando mi hanno vista andare in palestra due volte alla settimana, correre, curarmi con medicinali “mai sentiti” e diventare letteralmente un’altra, hanno cominciato a pensare (più che altro a capire) che fossi “malata per davvero”.

A quel punto, anche i più insospettabili, non solo hanno iniziato a chiedermi informazioni per l’amico che soffre o (addirittura) per sé, ma anche a raccontarmi di quei loro conoscenti che, per anni, hanno cercato aiuto perché soffrivano di dolori terribili e che, alla fine, non riuscendo a trovarlo da nessuna parte, hanno deciso di averne avuto abbastanza.

Avevo sempre pensato che il dolore cronico potesse rovinare a tal punto una vita da spingere al suicidio. Io stessa ci avevo pensato, per una trentina di secondi, nell’estate del 2003, guardando il selciato dal secondo piano di casa. Ora avevo qualche dato empirico in più, che non riguardava solo me.

Sicuramente non è piacevole parlare di suicidio. Non è un argomento con cui fare conversazione. Ma, generalmente, i problemi non si risolvono ignorandoli.

Noi, di dolore cronico, ci ammazziamo. Io non ho voglia di far finta di niente.

In effetti, a meno che non esistano condizioni patologiche specifiche sottese, di dolore cronico “in sè e per sè” non si muore. E’ possibile che si sviluppi una predisposizione alle malattie cardiovascolari, probabilmente causata dall’ansia e dallo stress prolungati a cui è esposto chi soffre di dolore persistente, ma questa è una condizione che si può gestire con le opportune strategie.

Altri fattori correlati all’aumentato rischio cardiovascolare, al cancro e alle malattie polmonari, spesso riguardanti anche chi soffre di dolore cronico, sono un BMI troppo alto, inattività, cattiva alimentazione, ma sono tutti fattori legati allo stile di vita, che subisce gli effetti negativi di una serie di pregiudizi sul dolore cronico (in particolare la necessità di ridurre il movimento, che è deleteria), non al dolore cronico in sè: migliorando lo stile di vita, si ritorna in range “normali”.

Insomma, non credo di dover spiegare qui cosa voglia dire vivere con dolore persistente ma, riassumendo, vuol dire portare un carico di dolore che, a lungo termine, fisicamente e psicologicamente è semplicemente devastante. Prima si ruba il corpo, poi la psiche, a volte tutta. Se la mangia. Si prende la vita. Punto. E si può arrivare a contemplare il suicidio.

Il tasso di suicidio è più altro fra le persone con dolore persistente.  Generalmente i fattori di rischio, in questa popolazione, possono essere concettualizzati in termini di due categorie. La prima comprende fattori che non sono limitati a pazienti con dolore, ma sono associati a tendenze suicide in generale. La seconda categoria raggruppa fattori di rischio specifici per le persone con dolore. Alcuni di questi sono difficili o impossibile da modificare, come la durata del dolore, o le sedi del corpo interessate. Altri, come l’intensità del dolore, la tendenza al catastrofismo, le interferenze funzionali, la scarsa autoefficacia, possono essere migliorati con interventi appropriati (e questa potremmo considerarla una buona notizia).

Sebbene raramente discusso, il suicidio nelle persone con dolore cronico si verifica spesso. Non ci sono dati concreti su quante persone con dolore cronico muoiano per suicidio ogni anno. Ma ci sono alcune supposizioni. Si ritiene che su circa 40.000 persone che riescono nei loro tentativi di suicidio ogni anno negli Stati Uniti, almeno dal 10 al 15 % siano persone che soffrono di dolore cronico. La verità, ovviamente, è diabolicamente difficile da capire con certezza (non mi voglio dilungare in dissertazioni sull’argomento, ma non abbiamo i dati delle persone che non lasciano lettere che spieghino le loro motivazioni e spesso non è possibile inquadrare le overdose da oppiacei come atti intenzionali, eccetera).    

Poiché gli individui con dolore cronico hanno almeno il doppio di probabilità di riportare comportamenti suicidi o di suicidarsi, è della massima importanza individuare quali fattori di rischio contribuiscono maggiormente all’aumento del rischio di suicidio. Esistono solide  evidenze che il dolore cronico stesso, indipendentemente dal tipo, sia un importante fattore di rischio indipendente per il suicidio. L’unico fattore sociodemografico trovato associato a suicidio in individui con dolore cronico è relativo alla disoccupazione e alla disabilità. Sintomi depressivi, problemi di rabbia, abitudini dannose (ad esempio fumo, abuso di alcool, droghe illecite), avversità nell’infanzia o nell’età adulta e storia familiare di depressione o tendenze suicide sono stati tutti identificati come fattori di rischio generali.

Per quanto riguarda i fattori legati al dolore, i problemi del sonno, il tono dell’umore basso, le condizioni concomitanti di dolore cronico e gli episodi più frequenti di dolore intermittente, sono stati tutti considerati fattori predittivi di suicidio. Inaspettatamente, le caratteristiche del dolore (per esempio il tipo, la durata, l’intensità, la gravità) e lo stato fisico non sembrano correlate al rischio di suicidio. Risultano maggiormente significativi, associati a esiti suicidi, i fattori psicosociali (ad esempio il senso di sconfitta mentale, la tendenza al catastrofismo, la disperazione).

Un gran numero di questi fattori è suscettibile di cambiamento attraverso un intervento mirato, sottolineando l’importanza di valutare in modo completo i pazienti con dolore cronico a rischio di suicidio, incorporando anche una componente di prevenzione del suicidio nei programmi di gestione del dolore cronico.

La triste situazione dei pazienti con dolore cronico, e il loro potenziale legame con il suicidio, difficilmente migliorerà fino a quando  l’epidemia del dolore cronico non verrà realmente presa sul serio, agendo strategie davvero efficaci, che non si basino sul trattamento preistorico del problema.

Le persone che vivono con dolore cronico sono la ragione per cui è essenziale un aumento dei finanziamenti per le cure per gestire il dolore cronico, a tutti i livelli, a partire dalla formazione del personale sanitario (e non solo). Il peso del dolore spesso supera la volontà umana di vivere, troppo spesso non perché manchi la ricerca, ma per una drammatica carenza di competenze da parte chi dovrebbe farsi carico della salute dei pazienti, che vengono abbandonati a se stessi, a vite non vite, in cui il dolore porta ad una disgregazione del vissuto, delle relazioni, della personalità, con ripercussioni gravissime, che non dovrebbero più essere ignorate. 

Fonti:

When pain kills – chronic pain and chronic diseases by Chris Williams on Body in Mind leggetelo qui

The Painful Truth, by Lynn Webster

A Nation in Pain. Chronic Pain and the Risk of Suicide by Judy Foreman on Psychology Today

Chronic pain and suicide risk: A comprehensive review, by Melanie Racine on Neuro-Psychopharmacology and Biological Psychiatry PubMed#28847525

Testing the Interpersonal Theory of Suicide in Chronic Pain by Wilson KG, Heenan A, Kowal J, Henderson PR, McWilliams LA, Castillo D on Clinical Journal of Pain PubMed #27768608

Remission From Suicidal Ideation Among Those in Chronic Pain: What Factors Are Associated With Resilience? by Fuller-Thomson E, Kotchapaw LD on The Journal of Pain PubMed#30979638