Il nostro corpo possiede fibre nervose specializzate, che rilevano cambiamenti potenzialmente pericolosi di temperatura, equilibrio chimico o pressione. Questi “rilevatori di pericolo” si chiamano “nocicettori” e inviano allarmi al cervello: non possono inviare dolore al cervello perché il dolore è un “prodotto del cervello”, un “output”, in pratica.
Il dolore non viene in realtà prodotto dal polso che hai rotto, o dalla caviglia che ti sei slogato. Il dolore è il risultato prodotto dal cervello che valuta le informazioni, compresi i dati di pericolo, i dati cognitivi come le aspettative, l’esposizione precedente, le norme e le convinzioni culturali e sociali e altri dati sensoriali come quello che vedi, senti a livello del polso o della caviglia e, questa interazione di dati, diviene ciò che percepisci.
Capisco che può essere complicato da comprendere. Questo è un concetto difficile da spiegare, ma ci provo con degli esempi. Prova a pensare ad un corridore che termina una gara, nonostante una distorsione ad una caviglia che si è procurato durante la corsa, e che comincia a percepire il dolore solo alla fine della competizione: magari è successa una cosa simile anche a te. Oppure puoi pensare ad un soldato in guerra, con una ferita grave, ma che non sente dolore, perché in quel momento il suo cervello ha bisogno che scappi e si metta in salvo. Ovviamente il tessuto è coinvolto, ha evidentemente subito potenziali danni, ma accade, in alcuni momenti, per il contesto in cui il danno si verifica (la gara e la guerra, nel nostro caso), che il cervello lo consideri come secondario. Strano, vero? Non succede solo agli sportivi o ai soldati. Capita a tutti.
Il cervello produce dolore creando il “miglior scenario possibile”, basato su tutti i dati in arrivo e le informazioni memorizzate, sempre allo scopo di proteggerci. Di solito il cervello svolge bene questo compito, a volte no.
Al giorno d’oggi sappiamo che il dolore può essere “attivato” o “aumentato” da tutto ciò che fornisce al cervello prove credibili che il corpo è in pericolo e ha bisogno di protezione. Quando diciamo questo, non pensiamo su grande scala: non ci riferiamo (solo) a catastrofi, minacce gravi, predatori, guerre nucleari e simili. Pensiamo a credenze sbagliate riguardo al nostro problema che ci lasciano un senso interno di fragilità, come ad esempio quando ci troviamo di fronte ad un’attività che riteniamo dannosa per noi, oppure siamo in un vortice di pensieri negativi che ci paralizza di fronte al dolore e che ci fa sembrare qualsiasi piccola cosa un problema insormontabile. Lasciando per un momento in disparte il concetto di protezione, altri fattori quali mancanza di sonno, la mancanza di attività fisica, lo stress, l’ansia… possono rendere il nostro corpo più sensibile al dolore.
Questo non ci deve portare a pensare che il dolore sia un fenomeno che riguardi esclusivamente il cervello e non il corpo. Infatti, i nocicettori, sono distribuiti su quasi tutti i nostri tessuti corporei ed il loro ruolo è quello di inviare informazioni al cervello riguardo a cambiamenti termici, chimici e meccanici. Per esempio, quando la temperatura aumenta o diminuisce, quando qualcuno ci tocca, preme, questi inviano informazioni al cervello il quale, eventualmente, mette in atto strategie di difesa, come i meccanismi di riparazione che abbiamo sperimentato tutti nella vita dopo, ad esempio, un’improvvisa distorsione alla caviglia.
È normale che, dopo un evento traumatico, nei primi giorni ci possa essere infiammazione, che rende la zona coinvolta più sensibile. L’infiammazione, d’altra parte, rendendo le aree coinvolte più sensibili, fa in modo che queste rispondano a stimolazioni che non sono realmente pericolose. Ad esempio, quando muoviamo la caviglia distorta di cui sopra a distanza di poche ore o giorni dall’evento scatenante, questa fa particolarmente male anche con minimi movimenti. Questo può accadere ovviamente in qualsiasi parte del corpo: alla schiena, collo, spalla, eccetera.
È tuttavia anche comune che la situazione torni alla normalità nel giro di qualche settimana o al massimo di pochi mesi. In assenza di gravi disturbi neurologici, reumatologici o condizioni maligne, quello che non è normale è che le stesse attività che nelle prime fasi erano dolorose o difficoltose continuino persistentemente ad essere dolorose. Questo viene definito come dolore persistente e richiede un approccio diverso rispetto ad un dolore acuto.
Trattare un dolore persistente come fosse un dolore acuto è uno degli errori più frequenti in cui un paziente ed un professionista sanitario tendono ad incorrere. Invece che essere d’aiuto può essere controproducente.
Non esistono pillole magiche per il dolore persistente, ma ti farà piacere sapere che, essendo il nostro sistema plastico, il recupero in determinate situazioni può essere rapido. Altre volte questo richiede un viaggio di pazienza, perseveranza, coraggio e buona preparazione. Questo dipende dai fattori che sottendono il tuo problema e che capiremo meglio più avanti.
Se di tutto quello che ho scritto sopra ci hai capito poco o nulla, hai tutta la mia comprensione e solidarietà. Per chiarirti un po’ le idee, ti consiglio di guardare il video qui sotto. E’ un cartone animato sottotitolato in italiano. Dura quattro minuti e spiega come il cervello reagisce al dolore, più alcune altre cose esaltanti.
Fonti:
“Explainer: what is pain and what is happening when we feel it?” intervista a Lorimer Moseley, www.theconversation.com, November 18, 2015